L’ultima fatica musicale dei Muse accoglie il volere del popolo, ma non convince all’unanimità
A quattro anni dall’uscita di Simulation Theory, indubbiamente l’album più divisivo e a tratti audace della discografia della band britannica, dalle forti tinte pop-elettroniche e caratterizzato da un’atmosfera musicale anni ’80 mista a testi ispirati da scene distopiche in cui la realtà aumentata è entrata a far parte delle nostre vite (un’idea premonitrice per certi versi) i Muse tornano sui loro passi (forse troppo?) con un disco che si pone l’obiettivo di riportare in primo piano i testi di impegno sociale e politico che hanno contraddistinto molti passaggi della loro carriera, riscoprendo a tratti il rock che li ha resi celebri nel mondo.
Gli stessi Muse a proposito di Will of the people dichiarano di non seguire più un vero e proprio genere, ma di dedicarsi alla composizione in maniera totalmente libera dagli schemi e ammetto, riuscendo a conservare una grande riconoscibilità, merito anche e soprattutto dell’incisiva vocalità del frontman Matthew Bellamy.
Nonostante tutto trovo che Will of the People, disponibile in commercio dal 26 Agosto 2022, rappresenti una piccola battuta d’arresto nel percorso dei Muse rispetto al costante apporto di novità presenti nei lavori passati, apprezzabili o meno, ma indubbiamente frutto di ricerca e sperimentazione.
E’ palese l’idea di voler omaggiare il proprio percorso e, perchè no, recuperare qualche fan perso lungo la strada con un’operazione nostalgia molto simile alla classica raccolta che molti cantanti decidono di pubblicare ad un certo punto della loro carriera, solitamente dal titolo “Greatest Hits…”.
Una scelta condivisibile se fosse stata attuata ricreando con nuovi brani le atmosfere di alcuni album, magari arricchendo il prodotto con l’esperienza di una band attiva da più di vent’anni, nove album in studio e svariati tour mondiali.
Ciò che emerge è invece una serie di tracce dai testi ben poco convinti e pungenti, nonostante il contesto socio-politico attuale fornisca ampi spunti di riflessione senza bisogno di scomodare i mondi distopici dipinti negli anni passati (eccezion fatta per “Kill or be Killed” e qualche frase qua e là in poche altre tracce), melodie che citano volontariamente, ma in maniera sterile, se non per strizzare l’occhio a qualche fanboy, capolavori come Starlight, Uprising o Time is Running Out, scomodando addirittura dei richiami alla band idolo dei Muse, ossia i Queen, nella traccia Liberation.
L’unica ballade presente nel disco, dal titolo Ghosts (how can i move on), mostra del potenziale ma viene barbaramente appiattita da un accompagnamento al pianoforte eccessivamente ossessivo, quasi disturbante e privo di calore, che per ammissione dello stesso Bellamy vuole riproporre lo “stile di Adele”, forse riferendosi alla hit Someone like you, ma non riuscendo completamente nell’obiettivo.
Dal vivo saranno brani perfetti per l’intrattenimento del pubblico, i videoclip e tutto ciò che ruota attorno al design è come sempre pomposo in stile Muse, ma in generale la sensazione è quella di una band che ha deciso momentaneamente di mettere in folle il motore della creatività andando a cercare di ricompattare la propria fanbase con un lavoro che non può essere annoverato tra le loro vette artistiche.
Le prossime settimane chiariranno ulteriormente se questo insieme di elementi avranno ottenuto l’effetto sperato.
Antonio Montecalvo
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