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Venus smiles not in the house of the tears è il titolo del nuovo album di Samora Pinderhughes, una scoperta musicale molto interessante figlia di un artista poliedrico.

Un lunedì mattina qualsiasi, accendo la radio dell’auto e nel mio consueto zapping l’orecchio mi fa fermare su Radio2, un’emittente che spesso nei suoi programmi porta delle rubriche di musica meno commerciale.
Bastano pochi secondi per innamorarmi del sound e del ritmo di Better, il primo singolo estratto dall’album Venus smiles not in the house of the tears.

Puoi chiamare qualcuno un “artista di nicchia” quando ha così tante nicchie? Samora Pinderhughes è emerso come pianista jazz, studiando alla Juilliard sotto la guida di Kenny Barron e collaborando con Chief Adjuah e Herbie Hancock. Ma è anche un compositore, paroliere, vocalist, cineasta, attivista socio-politico e studioso (sta lavorando a un dottorato ad Harvard). Una sintesi di influenze e collaborazioni che si ripercuote inevitabilmente nella sua musica, in particolare in questo ultimo lavoro.

“Venus Smiles Not in the House of Tears”, probabilmente la prima metà di un album promosso come in due parti da Pinderhughes stesso, come detto in precedenza riflette questo ampio background.
Ha una connessione forte con il movimento dei cantautori, ricordiamo i pezzi guidati dalla chitarra come “Inertia”, “Gatsby” e “Drown” i quali mostrano tracce delle origini folk/rock americano, nonostante possiamo ritrovare sparsa a macchia d’olio una massiccia dose di produzione elettronica, ritmi irregolari e armonie mai banali.

Anche l’uso della voce su questi brani rendono difficile ogni tipo di classificazione (ammesso che ce ne sia bisogno). Il suo falsetto morbido e velato ricorda artisti come Thom Yorke, ma poi c’è “Erased”, dove la voce stessa cambia e si riduce ad un tremolio basso e instabile accompagnato da semplici accordi di pianoforte, così netti e laceranti da risultare quasi inquietanti. Pinderhughes si concede anche una divagazione rap in “Slow Time”, ma anche quando non lo fa, ritroviamo spesso il linguaggio e il flow dell’MC, tanto che anche in una ballata come “Hands” la sua interpretazione è al confine con il rap.

“Hands” in realtà è una tenera canzone d’amore (“Tu trasformi iris in oceani, mi sono perso nel sogno… Le parole non bastano”). Di per sé, non è notevole rispetto alle altre, se non per il fatto che interrompe ciò che altrimenti sarebbe il filo conduttore di questo album eclettico e unico: un velo di oscurità che si muove lentamente permeando la musica e i testi, colora le dense stratificazioni di “Slow Time” (“Incubi in corsa quando vado a letto, accelerando la mia caduta”); il brano in stile Radiohead “WCID”; persino il redentore, quasi gospel “Forgive Yourself”, con i suoi archi piangenti e l’abbinamento della linea del titolo con: “Impara a vivere con te stesso.”

Immagino possa essere complicato per un fruitore medio di musica pop un ascolto di musica così densamente stratificata, ma a mio modesto parere, come spesso cerco di sottolineare nelle mie segnalazioni, in un contesto musicale sempre più semplicistico e diretto, dedicarsi a dei momenti di pace e di ascolto vero possa essere molto più interessante e coinvolgente di tante attività “mordi e fuggi”.

Antonio Montecalvo

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