Per la prima volta è stato possibile leggere il DNA di una delle vittime dell’eruzione di 2000 anni fa
Non possiamo sapere che aspetto avesse ma era un uomo tra i 35 e i 40 anni, probabilmente dell’Italia centrale, forse di origini sarde. Si trovava nella “Casa del Fabbro”, nello specifico è stato ritrovato nell’ala della sala da pranzo, insieme ad una donna di circa 50 anni, quando all’una del pomeriggio del 24 agosto del 79 d.C., il Vesuvio innalzò una colonna di lava, detriti e fumo, visibile ad oltre 40 km di distanza, che distrusse le città di Pompei ed Ercolano.
Dal 1998, i genetisti hanno cominciato a studiare i resti delle vittime e solo oggi è stata fatta una rivelazione di altissimo valore scientifico, grazie allo scheletro di quest’ uomo ritrovato nel 1934 in perfetto stato di conservazione evidentemente perché, grazie alla cenere, intorno a lui si era creato un ambiente privo di ossigeno.
Nel DNA sono state individuate sostanze genetiche tipiche del batterio responsabile della tubercolosi, da cui si deduce che l’uomo fosse malato.
La scoperta è merito di un team internazionale di ricercatori di università italiane, brasiliane, danesi e americane, coordinato da Gabriele Scorriano, antropologo molecolare. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports.
Guardando Pompei si ha la sensazione di guardare una sorta di istantanea di quel giorno, che Plinio il Giovane racconta come una vera apocalisse. Il deposito di un ampio strato di ceneri, infatti, fece sì che corpi, strade ed edifici rimanessero così come li trovò l’eruzione. La serie di scavi cominciò a partire dal Settecento e ha dato vita a uno dei siti archeologici meglio conservati di sempre e che ogni giorno sorprende con ritrovamenti e rivelazioni.
Questa nuova scoperta apre nuove prospettive di ricerca e potrebbe essere il primo tassello in grado di raccontarci qualcosa in più sulle popolazioni che vivevano la Roma imperiale.
Loredana Zampano
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