La società contemporanea è sempre più invasa dagli ossimori, contraddizioni la cui domanda viene spontanea ma la risposta decisamente meno. Esistono piaghe che perpetuano da decenni, si ripetono e nessuno sembra voler fare nulla di concreto per evitare che se ne parli ancora e ancora.
Un caso emblematico riguarda le morti sul lavoro. Detta così, sorge già un paradosso; come si può morire di lavoro? Sin dal momento in cui iniziamo ad avere una certa cognizione di causa relativamente alle vicende che accadono in questo mondo, ci viene continuamente ripetuto che la strada maestra da percorrere per vivere bene è lavorare. Lo dice anche la nostra Costituzione: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. E ancora, lo esprime il famoso proverbio: “il lavoro nobilita l’uomo”.
In linea teorica, dunque, lavorare ci permette di vivere. E allora come è possibile che tutto questo ci porti sempre più spesso alla morte? Le notizie che ogni giorno ci forniscono i vari media non mancano di riservare uno spazio all’ennesima “morte bianca”; è così che in gergo vengono qualificati tragici avvenimenti riguardanti i lavoratori. L’aggettivo “bianca” allude al fatto che in questi casi mancherebbe una mano formalmente responsabile dell’accaduto. Usare il condizionale è più che mai d’obbligo visto che, per le numerose vittime sul posto di lavoro c’è davvero poco di casuale.
Il diritto al lavoro è un pilastro delle democrazie, ma non sempre attorno a questo “privilegio” si crea un sistema di sicurezza adeguato. Eppure, sono questioni dibattute da anni. Pensate che le prime leggi in materia di salute e sicurezza estese a diverse attività produttive risalgono agli anni 1955-56. Successivamente, ci sono stati svariati correttivi, fino ad arrivare alla legge 81 del 2008, integrata con un decreto del 2009, che dovrebbe rappresentare la “stella polare” per le diverse aziende in Italia.
Eppure, i dati restano allarmanti. Nei primi tre mesi del 2022, l’INAIL ha registrato ben 189 morti sul lavoro, con un aumento del 2,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno passato. Le denunce di infortuni sono cresciute di ben 51 punti. Ad essere coinvolti in incidenti mortali nel nostro Paese, sono ultimamente meno uomini; di contro sono aumentate le vittime al femminile e in generale i decessi tra gli under-40. Se da un lato, la tragedia ci lascia spunti di riflessione “confortanti” circa l’aumento dei posti di lavoro per le donne e per i giovani, dall’altro non si può che esprimere rammarico e sconcerto per una vera e propria carneficina, che, va detto, avrebbe una portata assai maggiore se a questi numeri venissero aggiunti quelli dei lavoratori “in nero”.
Analizzando poi dati ad ampio raggio, si scopre come nei primi otto mesi del 2021 la media poco invidiabile di decessi “causa” lavoro sia stata superiore a tre vittime al giorno, con un aumento da Nord a Sud, dalla Lombardia all’Emilia-Romagna, passando per Campania e Piemonte.
Va specificato che il problema non riguarda solo l’Italia, dato che ogni anno muoiono nel mondo tra i due e i tre milioni di lavoratori. Conferma questa di un processo di globalizzazione e di capitalismo portati a livelli estremi da governi che hanno messo al primo posto la produttività, la logica del lucro, con tanti saluti alla sicurezza. Il fatto più grave di tutta la vicenda è cadere puntualmente nei soliti errori, indossando una maschera impregnata di ipocrisia che non fa altro che peggiorare la situazione.
Restando in casa nostra, recentemente il governo Draghi ha assicurato l’assunzione di 2300 ispettori del lavoro, 1024 dei quali dovranno entrare in servizio entro la fine del 2022. Peccato però che ad oggi manchi ancora la data limite per l’emissione del bando di assunzione. Una presa in giro bella e buona, insomma, che ancora una volta dimostra che la salute delle persone non è mai al primo posto.
Felice Marcantonio
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