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L’inizio del 2025 si è rivelato già drammaticamente emblematico di una piaga che continua a insanguinare silenziosamente il nostro Paese: le morti sul lavoro, o come vengono chiamate da anni con un termine tanto poetico quanto crudele, le “morti bianche”. Un’espressione che sembra voler addolcire qualcosa di inaccettabile: la perdita della vita mentre si compie il proprio dovere, mentre si lavora, mentre si cerca di guadagnarsi da vivere. Febbraio non ha fatto eccezione. Un altro operaio – l’ennesimo – ha perso la vita in circostanze che ancora una volta sollevano interrogativi mai risolti: era tutto in regola? Dove erano i controlli? Cosa si poteva fare per evitarlo?

Un altro nome da aggiungere alla lunga lista

L’operaio deceduto questo febbraio si unisce alla lunga lista di lavoratori che non hanno fatto ritorno a casa. La dinamica dell’incidente è ancora sotto indagine, ma quello che appare chiaro è il contesto: un Paese dove la sicurezza sul lavoro continua a essere sacrificata, spesso, in nome della produttività, dei costi, delle “urgenze”. Non è un caso isolato. È solo l’ultimo di una serie di eventi che raccontano un’Italia dove si continua a morire mentre si lavora. E le statistiche non fanno che confermare un trend inquietante.

I numeri impietosi del 2025

Secondo i dati ufficiali dell’INAIL e l’elaborazione dell’Osservatorio Vega Engineering, nel solo mese di gennaio 2025 si sono registrati 60 decessi legati all’attività lavorativa: 45 in occasione di lavoro e 15 in itinere (durante il tragitto casa-lavoro). Un incremento del 33,3% rispetto a gennaio 2024, quando erano stati 45 in totale.

Il dato assume toni ancora più gravi se si osserva la distribuzione settoriale delle vittime: 6 morti nel settore del Trasporto e Magazzinaggio, 4 nelle Attività Manifatturiere e altre 4 nelle Costruzioni. Settori già storicamente a rischio, che però sembrano non riuscire a invertire la rotta nonostante le tante – troppe – parole spese in sede istituzionale.

Chi sono le vittime?

Un altro dato su cui riflettere è quello anagrafico: la fascia d’età maggiormente colpita è quella tra i 55 e i 64 anni, che rappresenta quasi la metà delle morti. È una fascia spesso composta da lavoratori esperti, con lunghi anni di servizio alle spalle, ma anche più esposta a rischi fisici e logoramento. Ma l’età non salva nessuno: anche i giovani, soprattutto nei settori edili e agricoli, continuano a essere esposti a pericoli gravissimi.

Particolarmente allarmante è il dato relativo ai lavoratori stranieri, che mostrano un tasso di mortalità più che doppio rispetto agli italiani: 4,2 morti ogni milione di occupati, contro 1,7. Questo squilibrio evidenzia come spesso i lavoratori immigrati vengano impiegati nei lavori più pericolosi, con meno tutele e in condizioni spesso precarie o poco regolamentate.

La “patente a punti”: una svolta o solo un deterrente?

Tra le misure introdotte per arginare la strage silenziosa delle morti sul lavoro, una delle novità più discusse è l’entrata in vigore, dal 1° ottobre 2024, della cosiddetta patente a punti per la sicurezza, resa obbligatoria per tutte le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili. Si tratta di un sistema simile a quello già in uso nel settore dei trasporti: ogni azienda parte con un punteggio iniziale (30 punti), che può essere decurtato in caso di gravi violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza.

La patente è rilasciata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro ed è necessaria per poter lavorare nei cantieri: se un’impresa scende sotto i 15 punti, non potrà più operare, almeno fino a una nuova formazione e al recupero del punteggio. In caso di sospensione per violazioni gravi, la patente viene ritirata.

Questa misura mira a premiare i comportamenti virtuosi e punire chi opera senza rispetto per la sicurezza dei lavoratori. Tuttavia, non sono mancate critiche, soprattutto da parte di piccole imprese e associazioni di categoria, che temono una burocrazia eccessiva o una disparità di trattamento. Alcuni esperti, invece, sottolineano come la patente rappresenti un primo passo verso una responsabilizzazione concreta delle imprese, introducendo un meccanismo sanzionatorio più immediato e dissuasivo rispetto al passato.

Resta ora da vedere se questa innovazione sarà accompagnata da controlli capillari, formazione diffusa e supporto reale per le imprese sane, oppure se si limiterà a restare sulla carta. La sua efficacia, nei fatti, si misurerà non nei regolamenti, ma nel numero – auspicabilmente decrescente – di croci nei luoghi di lavoro.

Un’assenza che pesa più della retorica

A ogni tragedia seguono comunicati ufficiali, dichiarazioni di cordoglio, promesse di intensificare i controlli. Ma dopo l’eco mediatica, tutto torna al silenzio. Le famiglie delle vittime restano sole con il dolore e con troppe domande senza risposta. Le responsabilità si diluiscono, e la macchina riparte come se nulla fosse.

Queste morti sono il riflesso di un Paese dove il lavoro, che dovrebbe essere dignità e futuro, può diventare condanna e fine. Dove la retorica sulla sicurezza non basta più. Dove servono investimenti concreti, ispezioni costanti, e soprattutto un cambiamento culturale profondo.

Morire di lavoro non può e non deve essere considerato un destino ineluttabile. È il segnale di un fallimento collettivo: delle istituzioni, delle imprese, ma anche della società civile.

Il 2025 si è aperto nel peggiore dei modi, ma può essere anche l’anno in cui si decide davvero di cambiare rotta. Ogni morte bianca non è solo una tragedia individuale, è un monito per tutti. Sta a noi ascoltarlo.

Chiara Vitone

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