Nonostante una certa fama che le è stata attribuita recentemente, la storia e le poesie della poetessa lucana Isabella Morra (Valsinni, 1520-1546) rimangono ancora perlopiù sconosciute. Questa è una storia di enorme dolore e, allo stesso tempo, di sollievo. Sollievo che la poetessa poteva provare solo nel suo poetare, nelle sue amate letture, contemplando il meraviglioso panorama dal castello di Favale (allora, nel XVI° secolo, era il nome dell’odierna Valsinni, in provincia di Matera). Isabella proveniva da una famiglia nobiliare, i Morra appunto, che erano signori del feudo di Favale, nella valle del Sinni, nel Materano. Il padre dovette abbandonare la famiglia e fuggire esule in Francia a causa di turbolente vicissitudini politiche, legate ai giochi di dominio che all’epoca insanguinavano il Sud Italia per opera dei Francesi e degli Spagnoli. Isabella si ritrovò così, all’età di 8 anni con la madre che soffriva di crisi nervose e che passava la maggior parte del tempo rinchiusa nelle stanze del castello di famiglia, e con i fratelli maggiori che la disprezzavano e la deridevano continuamente. In questa tremenda situazione famigliare, gli unici momenti di pace li trovava nella lettura dei classici e nella composizione di poesie, che donavano alla giovane Isabella dei periodi, seppur fugaci, di serenità.
Durante la sua adolescenza, grazie al suo precettore di nome Torquato, la giovane Isabella intraprese una corrispondenza epistolare con un giovane nobile, il poeta e cavaliere spagnolo Diego Sandoval de Castro, che era stato nominato signore di Cosenza dall’imperatore Carlo V, e quindi tecnicamente rivale e nemico dei Morra, che parteggiavano invece per i Francesi. Ovviamente ad Isabella non interessavano né la politica né i giochi di potere, ancor meno le interessavano le voci che cominciarono a girare in paese, voci che pian piano giunsero ai fratelli rozzi e selvaggi, che vedevano come un vero e proprio tradimento il fatto che la sorella fosse in contatto, e addirittura avesse iniziato una relazione (non si sa se puramente epistolare o una vera e propria relazione passionale) con un cavaliere della fazione opposta. Sta di fatto che la poetessa, ispirata dal petrarchismo, dalla letture dei classici e dall’interessamento verso la natura e l’amore, compose in questo periodo le poesie e le canzoni che 400 anni dopo, grazie all’immenso Benedetto Croce, acquisirono una minima fama che sicuramente meriterebbe uno spazio più ampio all’interno del panorama letterario femminile.
Purtroppo i fratelli maggiori, riottosi, ignoranti e beceri, decisero senza pensarci troppo, di assassinare Isabella, mescolando presunti motivi di “onore” con motivi politici. Scoperto il supposto intrigo amoroso, la prima vittima dei fratelli Morra fu il suo istitutore Torquato ed in seguito la stessa Isabella, che venne pugnalata a morte. Non ancora soddisfatti, si riunirono ben presto per volgere la loro vendetta e crudeltà anche contro Don Diego, il quale, temendo che la loro furia si abbattesse anche su di lui, reclutò invano una scorta. Probabilmente spinti anche dall’odio verso gli Spagnoli, gli tesero l’agguato fatale, ammazzando il barone a colpi di archibugio nel bosco di Noia (l’odierna Noepoli).
L’assassinio di Diego Sandoval de Castro provocò, all’epoca, reazioni di deplorazione molto più ampie che non l’uccisione di Isabella. Questo ci fa comprendere quanto la cultura patriarcale e l’avversità, così come l’arretratezza sociale e culturale di molte aree d’Europa, tendessero a minimizzare le figure femminili per mettere al primo posto i ruoli, seppur marginali, degli uomini “dominanti e dominatori”
E’ una storia terribile, crudele, che lascia una profonda tristezza ed amarezza che può essere, solo parzialmente, lenita dalla lettura delle sue bellissime ed intime poesie, che grazie a Benedetto Croce sono state portate ad una certa notorietà.
Gli scritti di Isabella furono scoperti dagli ufficiali del viceré di Napoli e “messi agli atti”, durante l’indagine che seguì l’uccisione di Diego Sandoval de Castro, allorché il castello di Valsinni fu perquisito. Nonostante il numero estremamente esiguo di poesie a noi pervenuto (dieci sonetti e tre canzoni), la poetica di Isabella è considerata una delle più intense e toccanti della lirica cinquecentesca. Molte sono state le letture del suo canzoniere in chiave meramente femminista (tenuto conto del limitato numero di donne presenti nella letteratura italiana del tempo), specialmente in ambito statunitense, senza che tenessero in sufficiente considerazione il retroterra culturale e storico dell’epoca. Non esistendo un’edizione delle liriche curata dalla poetessa, non si conosce con certezza l’ordine temporale dato alle sue opere e i tredici componimenti del canzoniere, considerato «un’autentica autobiografia in versi», sono stati suddivisi in due stagioni poetiche: la prima segnata dal malessere e dalla speranza di evasione, la seconda (comprendente l’ultimo sonetto e le tre canzoni) dalla rassegnazione e dal conforto nella religione.
La poetica di Isabella è stata inserita nello stile petrarchesco, in un periodo (il ‘500) in cui le donne, sebbene di estrazione nobiliare, iniziarono ad acquistare importanza in campo culturale e sociale. Il tema dominante era l’amore con le gioie e i lamenti che ne scaturivano, omaggi alla persona amata e la ricerca di un sentimento più puro. Poco ebbe in comune Isabella con le altre donne poetesse del suo tempo, poiché mai ebbe l’opportunità di far valere le proprie doti e di ottenere la celebrità e il plauso presso le corti e le accademie, e qualsiasi emozione o sentimento d’amore è assente nella sua lirica. Isabella non canta l’amore perché probabilmente non ha avuto esperienze amorose vere e proprie, forse solo il tormentato amore platonico con Don Diego. L’unico breve cenno all’amore è il matrimonio, visto solamente come unica via possibile di liberazione ed emancipazione.
Benché segua lo schema del sonetto petrarchesco obbediente alle regole dettate da Pietro Bembo, Isabella si differenzia dalle poetesse del suo tempo e dalla lirica petrarchesca in generale per la sua atmosfera tetra e malinconica, strettamente legata alla sua esistenza tormentata. Oltre ai diversi richiami al Petrarca, l’influenza di Dante Alighieri è evidente, la quale conferisce un tono prettamente oscuro alla sua poetica riconducibile all’Inferno della Divina Commedia, nonché di Jacopone da Todi per quanto riguarda la presenza di figure ed elementi legati alla poesia cristiana. Il suo stile da lei stessa definito «amaro, aspro e dolente», «ruvido e frale» e il suo «rozo inchiostro» lasciano intravedere la frustrazione di una persona elevata e oppressa in una società retrograda, desiderosa di vedere riconosciute le sue qualità di donna e poetessa e di auspicare un mondo sottratto alla violenza e ricondotto alla tolleranza.
Infine, sarebbe auspicabile che grazie alla figura e alle poesie di Isabella Morra, così come molte altre autrici, conosciute o non, si possa mettere in evidenza la difficoltà di emancipazione e di autodeterminazione delle donne, ovviamente premesso che nel ‘500 le condizioni erano chiaramente e storicamente diverse ed avverse, ma che serva come sollecito e come sveglia per affrontare tutti i problemi che le donne, anche oggigiorno, sono costrette ad affrontare, nel Sud Italia così come nel resto del mondo. Dopotutto, la poesia è “femmena”.
Allego una delle poesie di Isabella Morra, per riflessione imperitura:
Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
un tempo, come sai, contra Fortuna,
sì che null’altra mai sotto la luna
di lei si dolse con voler più ardente.
Or del suo cieco error l’alma si pente,
che in tai doti non scorge gloria alcuna.
e se de’ beni suoi vive digiuna.
spera arricchirsi in Dio chiara e lucente.
Né tempo o morte il bel tesoro eterno,
né predatrice e vïolenta mano
ce lo torrà davanti al Re del cielo.
Ivi non nuoce già state né verno,
ché non si sente mai caldo né gielo.
Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.
Alessandro Fusaro
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