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Recentemente è stato trasmesso in TV “Il postino”, film del 1994 con la regia di Michael Radford. La pellicola prende spunto da un libro dello scrittore cileno Antonio Skàrmeta intitolato: ” Il postino di Neruda”.

Il romanzo in questione tratta la vicenda del famoso autore Pablo Neruda il quale, nel 1958, avendo sulla testa una dichiarazione di arresto dal proprio Paese ( siamo negli anni delle rivendicazioni civili nel Sud America), trova asilo su un’isola sperduta del Sud Italia. Qui, a portargli la corrispondenza, ci sarà un giovane del luogo, ingaggiato come postino per l’occasione, dotato di un’ingenua ignoranza quanto animato, allo stesso tempo, da una crescente ansia conoscitiva. E’ proprio il ragazzo campano che nel corso del romanzo instaurerà un rapporto sempre più di complicità con il grande scrittore premio Nobel.

E’ la cultura più costruita e globale, vista come una prerogativa per pochi eletti, che incontra la quotidianità, la sua semplicità e spontaneità, la sua pulita verità. Due mondi apparentemente distanti che si compenetrano e si completano a vicenda. Il senso del racconto può essere più o meno riassunto in questi termini ed è ciò che spinse Massimo Troisi, tra i rappresentanti della “cultura del popolo” più autorevoli, ad ideare un film che raccontasse questa meravigliosa storia di nicchia.

Per realizzare una pellicola di alto profilo, morale e cinematografico, l’attore di San Giorgio a Cremano volle “il meglio”: un regista navigato ed ammirato dai grandi critici di Hollywood quale Radford, un guru del cinema francese quale Philippe Noiret, il quale avrebbe dovuto vestire i panni di Neruda ed un compositore di colonne sonore quale Luis Bachalov. Troisi, come fece sempre, riservò per sè il ruolo più “umile”: Mario Ruoppolo, figlio di pescatore, colui che sarebbe diventato il postino di Pablo Neruda. Nel ruolo della “Beatrice” dantesca della situazione, venne scelta un’attrice emergente destinata, anche grazie alla sua interpretazione nel citato film, ad una brillante carriera; sto parlando di Maria Grazia Cucinotta.

L’organizzazione della regia e della sceneggiatura, cui lo stesso Troisi prese parte in prima persona, furono di non facile attuazione; “Il postino” viene tristemente ricordato, infatti, come l’ultimo lavoro del grande attore napoletano. Egli, come svelano “voci di corridoio” del dietro le quinte, antepose la realizzazione di questo lavoro alla sua stessa vita; occorreva un urgente trapianto per un cuore troppo “ballerino”. Massimo, come lo ricordiamo tutti chiamandolo semplicemente per nome, non fece in tempo ad operarsi e nemmeno a vedere inscenato nella sua compiutezza il film che tanto volle costruire.

Nelle ultime due scene, l’attore protagonista non compare, era morto… anche e soprattutto nella vita reale. La commozione che traspare dai volti degli altri personaggi in scena è incredibilmente autentica, non c’è bisogno di fingere, viene tutto spontaneo.

La pellicola si conclude con Noiret (Neruda) che cammina pensieroso, a metà tra la spensieratezza e la malinconia, sulla spiaggia dell’isola, ricordando l’amico Troisi(il postino) tanto legato alla sua terra.

Dopo un dovuto excursus sulle dinamiche e sulla trama del film, vengono spontanee alcune riflessioni. A ben vedere, infatti, ci si accorge come non sia un caso che proprio “Il postino” fosse stato scelto dalla sorte come congedo al mondo di Massimo Troisi.

Già dal titolo notiamo come questo rappresenti una palese metafora (tanto cercata da Ruoppolo nel film per far innamorare di sè Beatrice Russo) del compito per cui Massimo scelse di diventare attore.

Egli era un messaggero, proprio come un qualsiasi postino. Ma dietro la sua semplicità, dietro la sua immediata sembianza, si celava un intento nobile, una natura meno evidente, che neanche molti definiti tali per legami di sangue posseggono. Era una dote rara, un dono. Ne era senz’altro consapevole lo stesso Troisi, il quale tuttavia dall’alto della sua umiltà non pretendeva che gli venisse riconosciuto alcun merito. Erano semmai gli altri, di loro spontanea volontà, ad insignirlo di virtù particolari.

Massimo si sentiva un uomo del popolo; questa sua pelle originaria non l’ha mai mutata. Era cresciuta in lui, negli anni, una consapevolezza, ovvero quella di avere a disposizione lo strumento più importante, la parola, per poter smuovere le coscienze dal loro torpore e sognare tutti insieme un riscatto sociale. Questa “rivoluzione” doveva essere soprattutto culturale perché è dalla costante aspirazione al sapere che si costruisce un futuro migliore.

E’ questa la lettera più importante che “il postino” Troisi ha voluto consegnare ai posteri; bisogna essere affamati di cultura, che non significa solamente leggere libri, anzi. Acculturarsi è soprattutto sapersi rapportare con la natura che ci circonda, con la società e con la propria personalità per trarne i giusti insegnamenti e allontanare le ideologie conformistiche che ingabbiano invece la nostra persona.

Voleva acculturarsi lo stesso Mario nel film, ad esempio quando chiese a Neruda cosa fosse una metafora per poi, proseguendo nel processo di crescita, scoprire che ognuno di noi può essere un poeta. Emblematica, in questo senso, la parte in cui il giovane postino è intento a registrare grazie ad uno strumento di ricezione di suoni un po’ datato e malconcio, le “parole” della natura, dall’urto sugli scogli delle onde del mare al rintocco delle campane, passando per lo scroscio delle foglie degli alberi agitate dal vento.

Naturalezza fa rima con scoperta, curiosità con cultura. Sono legami inscindibili e propedeutici che Massimo Troisi conosceva bene. Egli aveva scoperto tutto ciò. Lo volle manifestare a noi e passarci il testimone proprio attraverso “Il postino”.

Questo “noi” a cui mi riferisco siamo soprattutto noi giovani, perché saremo noi a costruire il futuro. Un domani in cui non ci si aggrappi più a stereotipi quali ” i comunisti mangiano i bambini”, come diceva il parroco dell’isola, o ancora “alla convinzione/presunzione di scegliere la persona “giusta” per la propria nipote, come riteneva la nonna di Beatrice Russo nella finzione cinematografica. Un domani, invece, che ci regali libertà, conoscenza, felicità.

E chissà… magari lungo il cammino incontreremo un giovane ragazzo, col cappello da postino, che volgerà lo sguardo verso di noi, sorridendoci e riprendendo a pedalare verso l’orizzonte ci sproni a guardare sempre avanti per scalare pian piano la montagna della vita.

Forse, Troisi si congedò sul più bello per dare a noi l’onere e l’onore di una degna conclusione. E’ la pesante eredità che ci spetta…a noi è dato scrivere il finale…GRAZIE, Massimo!

Felice Marcantonio

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