“E il vestito che tu indossi non è un abito da sposa
E il fucile che tu porti è un fucile vero e non una rosa”
(Eugenio Bennato – Il Sorriso Di Michela)
PARTE IV – ETA’ CONTEMPORANEA
Siamo alla fine di un viaggio, quello che ci ha portato attraverso la storia del Mezzogiorno d’Italia attraverso gli occhi di coloro che nel Sud ci nacquero, ci vissero e lo conquistarono, a volte con la forza dello scettro, a volte con la solo forza del proprio pensiero. Ed è proprio la forza del pensiero, l’ideale, una “buona pazzia” che ci porta all’ultimo diamante pazzo, uno di quelli che non ha avuto molto spazio nelle pagine delle storie, una donna, nata e morta umile, ma che in vita fu in grado di avere al comando praticamente un esercito: Michela de Cesare, chiamata affettuosamente Michelina, brigantessa.
La storia di Michela affonda le radici nell’Italia post-unitaria, quella del 1861, quando le illusioni della povera gente del Sud vennero ben presto vanificate dalla politica usurpatoria della classe dirigente piemontese che, per avidità o, ancor più, per ignoranza, peggiorarono la situazione verso uno stato di povertà, degrado e disoccupazione. Benchè la pratica del brigantaggio fosse secolare, in questa particolare fase della storia esso assunse una valenza di natura spiccatamente ideale ed ideologica, a tratti mitizzata. La delusione delle masse contadine seguita all’iniziale entusiasmo per Garibaldi e per le sue promesse di miglioramenti sociali ed economici era stata abilmente strumentalizzata da Francesco II di Borbone che, dopo la sconfitta, aveva pensato di servirsi dei briganti per riconquistare il regno. Oltre a ciò, il disprezzo dei piemontesi per gente ritenuta arretrata e di rango inferiore, gli abbattimenti doganali voluti da Cavour, l’estensione dello Statuto Albertino a tutta la penisola non tenendo conto degli ordinamenti legislativi precedenti, il degrado e la povertà non fecero altro che esasperare il fenomeno.
Lo scontro tra briganti ed esercito italiano ebbe proporzioni bibliche, segnato da ferocia e crudeltà da ambo le parti, che terminò in eccidi e stermini di intere comunità, se da un lato i briganti difendevano la propria terra, il nuovo Stato doveva difendere il proprio prestigio a livello internazionale, la sola presenza di bande armate irregolari non era concepibile. Lo scontro fu tale da meritare una legge apposita affinchè venisse estirpato dalle “provincie infette”: la Legge Pica, la quale stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva inoltre concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stati stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. La punizione era, per i rei di brigantaggio, la fucilazione o i lavori forzati a vita (salvo circostanze attenuanti), e non è difficile supporre che la suddetta normativa sia stata poi utilizzata al fine di consumare delle vendette private.
Michela fu una delle vittime della Legge Pica. Nata a Caspoli, figlia di braccianti, sposò Francesco Guerra, disertore dell’esercito borbonico divenuto brigante, lo seguì nelle battaglie, e divenne lei stessa capobanda, il che è testimoniato da più parti: divenne un elemento di spicco e fu stretta collaboratrice del suo uomo e capobanda. La banda Rafaniello, di cui faceva parte, operò nella zona montuosa di Mignano (nel casertano) dal 1862 al 1868, anno in cui fu colà inviato il generale Emilio Pallavicini di Priola con pieni poteri per dare una stretta decisiva alla lotta contro il brigantaggio. All’azione armata il Pallavicini seppe efficacemente aggiungere le ricompense per le delazioni e le spiate, e fu proprio una spia che fece sorprendere nel sonno Michela e il Guerra.
La parte scabrosa e disumana del racconto inizia qui: fucilata, torturata e denudata (forse anche stuprata) fu fotografata ormai senza vita ed esposta con i propri compagni nella pubblica piazza, a mo’ di esempio, come monito per la popolazione. La propaganda sabauda ha fatto il resto, e se anche qualche voce singola si levò dal coro, fu ben presto liquidata con l’espressione “un male necessario”, come era spesso in uso dire a cavallo tra Otto e Novecento.
Tuttavia, all’immagine di una donna assassinata come una bestia ed esposta al pubblico ludibrio se ne contrappone un’altra, quella di una donna dallo sguardo deciso e il volto provato dalla durezza del contesto in cui visse e che, tuttavia, non nasconde i tratti mediterranei di una ragazza affascinante, ancora nel fiore degli anni, vestita con gli abiti tradizionali ciociari, con in braccio il fucile. E’ proprio quest’ultima la donna che fu il diamante pazzo del Sud, ribelle, una di quelle che, a dispetto delle donne delle classi agiate dell’epoca, combatteva, sparava e uccideva per amore e per idea, pur essendo praticamente analfabeta, forse anche una rivoluzionaria ante litteram.
Non è stata un ricco tiranno come Dionisio, contro i tiranni si è battuta fino a morirne.
Non è stata una regnante dalle mille conoscenze come Federico II, era nata povera e non poteva permettersi un’istruzione.
Non è stata una filosofa come Tommaso Campanella, anche combattendo contro le menzogne di questo mondo, conobbe la pratica, ma mai la teoria.
L’intenzione non è certo quella di far di lei una santa e una martire, avrà pur commesso delle colpe atroci che non conosciamo, fa parte della guerra, e in guerra la bontà non può essere che un lume. Lei non può essere e non sarà mai la bandiera del revanscismo borbonico, anche se spesso provano ad impadronirsi della sua figura. L’unica cosa che può essere è un esempio di vita, una vita vissuta in piedi e non in ginocchio, in modo mai servile, libero dalle catene. A lei è toccata la sorte peggiore, ha scelto la parte sbagliata e, da morta, ha patito l’oblio e la pubblica gogna; a modo proprio, fu una di quelli che provò a cacciare via “con mazze e pietre i governanti disonesti”, o quantomeno provò a tenerli lontani da ciò che le apparteneva. L’Italia è più bella unita, ma non possiamo dimenticare.
Il viaggio è terminato, speriamo di aver fatto un lavoro consapevole, di aver smosso almeno una coscienza. Sta bene.
Dario Del Viscio
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