“Sicilia di tiranni antico nido
vide triste Agatocle acerbo e crudo
e vide i dispietati Dionigi
e quel che fece il crudel fabro ignudo
gittare il primo doloroso strido
e far ne l’arte sua primi vestigi.”
(Petrarca, Rime Disperse 65-70)
PARTE I – ETA’ ANTICA
Iniziamo la nostra trattazione, attraverso le epoche, sulle grandi personalità vissute nel Meridione, iniziando dagli albori della civiltà occidentale. La prima parte tratterà, come è ben intuibile, dell’età antica. Dopo un’accurata ricerca ho scelto di presentare ai lettori una figura poco conosciuta, che tuttavia, ai suoi tempi, ha saputo determinare il corso della storia, alla pari del molto noto Alessandro Magno: sto parlando di Dionisio il Grande, tiranno di Siracusa.
Ma partiamo dall’inizio. Prima che Roma mettesse piede in quella terra vasta e ricca di grano, la Sicilia era stata colonizzata da genti greche, venute attraverso il mare dalla loro terra d’origine per cercare una nuova dimora, forse a causa di un eccesso demografico. Essi avevano fondato tante città, tra cui Taranto, Napoli, Sibari, Locri e Gela sono solo alcune; tra tutte, tuttavia, una riuscì a spiccare tra le altre per posizione geografica, grandezza e lungimiranza di scelte politiche: Siracusa. I coloni corinzi, che l’avevano fondata, avevano scelto di gettare le basi della città sull’isola di Ortigia, ben difesa da terra e dal mare, e in non molto tempo furono in grado di commerciare con più realtà, la sua potenza si accrebbe e, come è prevedibile, non tardarono ad arrivare gli scontri, con altre città greche è certo, ma in particolare con i Cartaginesi.
Una città così competitiva, così dinamica, così intraprendente, però, non poteva non celare un aspetto molto comune in questi casi: l’instabilità politica, e il conseguente affermarsi di demagoghi dalle spiccate abilità oratorie, in veste di salvatori della comunità cittadina. Viene naturale, agli esseri umani, affidarsi a figure che promettono la salvezza in casi di crisi, il rischio che si corre, tuttavia, è che questi sfruttino il pretesto di un’emergenza per instaurare un potere di stampo strettamente professionale, diventando despoti a tutti gli effetti. E fu proprio quello che accadde a Siracusa, prima con Gelone e, ottant’anni dopo la caduta di questo, con Dionisio.
Dionisio non era certo di nobile estrazione, e seppe compensare questa mancanza con una sfrenata ambizione: a soli ventitre anni fu esiliato in quanto coinvolto in un colpo di stato guidato da Ermocrate di Ermone, colui che riuscì ad unire tutte le polis siciliane nel Congresso di Gela col quale tutti i Sicelioti (Greci di Sicilia) erano tenuti a non attaccare né saccheggiare nessuno in previsione di un coinvolgimento della Sicilia nella Guerra del Peloponneso, guerra che non si fece attendere molto giacchè Siracusa dovette ben presto respingere un’invasione ateniese. La città, allora governata da un regime democratico, non resse però all’urto cartaginese. Ed è qui che Dionisio seppe approfittare della situazione, facendosi eleggere polemarco (detto profanamente “il generalissimo”) nel momento di massima difficoltà dei cittadini: come fece, se già fu esiliato? Semplice, seppe rivolgersi ai cittadini con cautela, presentandosi come portavoce delle masse insoddisfatte.
Il favore nei confronti di Dionisio crebbe quando il suo esercito fu mandato a Gela per supplire alla mancanza di uomini nella guarnigione cittadina, minacciata da Imilcone e dai barlumi di una nuova guerra contro i Cartaginesi. Lì, condannò a morte i ricchi della città e divise i loro averi tra la popolazione, riuscendo a duplicare, in tal modo, gli stipendi dei soldati; con questa mossa non solo si guadagnò il sostegno degli uomini armati (sostegno, tra l’altro, importantissimo per instaurare una tirannide) ma anche il favore del demo di Gela che, memore dei ricordi passati, poneva ora poca fiducia negli uomini più potenti. Non molto tempo dopo, con mossa astuta, Dionisio si dotò di guardie del corpo adottando come scusa il timore per la propria vita, rivestendo comunque una delle cariche più importante della comunità siracusana. Con quest’ultima mossa, egli riuscì definitivamente a dichiararsi tiranno, sostenuto e avallato da più parti.
Un articolo è breve per parlare di meri fatti storici, che possiamo brevemente accennare. Quello che interessa, per la nostra trattazione, è l’insieme di scelte politiche e la complessa personalità di Dionisio. Innanzitutto, è bene dire che Dionisio fu un grande oratore, un abile statista, colui il quale, sulla scia di Ermocrate, riuscì ad unire le poleis greche, notamente campanilistiche e litigiose, in un’unica entità statale (non in senso moderno, chiaramente).
A differenza dei suoi predecessori, non abolì le assemblee popolari e le magistrature elettive, ma le svuotò del loro potere effettivo facendovi eleggere sempre uomini a lui fedeli e dotò il suo regno di un sistema fiscale efficiente che sapeva raccogliere e convogliare nella reggia di Siracusa la decima su tutti i raccolti.
Tra le sue passioni, quella più annoverata è sicuramente quella della medicina, si dice avesse tutte le competenze di un chirurgo e che fosse anche piuttosto abile, e un’altra passione sempre molto annoverata è sicuramente quella per il vino. Nonostante la sua potenza e le sue abilità, viene spesso tacciato di codardia e diffidenza dagli autori antichi. Come ogni despota “illuminato” Dionisio amò circondarsi di intellettuali, ospitò e poi imprigionò Platone, e amando immensamente il genere tragico, iniziò a scrivere versi propri, che a noi non sono pervenuti completi e sono frutto di citazione da parte di Ateneo e Stobeo, ma che gli autori, tra cui Diodoro Siculo, non esitarono a screditare e contestare.
Le testimonianze sulla sua morte sono diverse e non sempre concordano, quella più accreditata è che, vecchio e morente, si fece somministrare un sonnifero per non morire in preda ai dolori. Uno come lui, che aveva reso Siracusa una potenza, non poteva permettersi di morire tra urla strazianti, in modo poco dignitoso.
Abbiamo parlato di un tiranno, di un uomo pieno di passioni e di interessi, anche se, spesso, privo di scrupoli, amato da molti e odiato da altrettanti, un uomo che Valerio Massimo non esitò a defire “il cattivo genio della Sicilia”, un uomo abile e scaltro, anche se pieno di paure. Insomma, un diamante pazzo.
Dario del Viscio
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