Stigma, dal greco, significava marchio impresso a fuoco sul bestiame o, come punizione, sugli schiavi fuggitivi. Ne deriva il significato di “stigmatizzazione” come forma di condanna e di biasimo che “marchia” i soggetti devianti. Anche il termine deviazione ha una sua etimologia, ma in modo più semplificativo indica tutto ciò di “non conforme” alle norme. Il mondo in cui viviamo è basato su questo concetto, circoscritto dal segno di una matita diventata indelebile. La smània del controllo ha portato ad una netta e necessaria identificazione del soggetto stesso. Le parole di Giorgia Meloni sono state parole amare e di non poco conto, ma specchio riflesso di una concezione sociale evidentemente ancora troppo radicata.
La parola “devianza” accanto ad altre, quali disturbi alimentari, autolesionismo, hikikomori, hanno spinto ognuno di noi ad una profonda riflessione.
Ho provato più volte ad immedesimarmi nelle sue affermazioni, cercando di capire ciò che volesse intendere e se davvero fosse stato possibile capirne il senso, trovarne un nesso che potesse, in qualche modo, spiegarle.
E’ ancora opportuno parlare di “devianza”?
Quelle espressioni, però, mi hanno riportata alla teoria sviluppata dal sociologo americano R. K. Merton, secondo il quale in una società che dà la massima importanza a determinati obiettivi, al successo personale e al raggiungimento di traguardi individuali, si sviluppa una tensione permanente. In effetti è più che attuale, come negarlo. Il conformismo risulterebbe la risposta più comune e naturale. Anch’egli identifica una minoranza di comportamenti devianti come una classe che non risulta essere dotata dei mezzi necessari per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, discostandosene. Sembrerebbe una spiegazione semplice ed ammissibile ma egli stesso afferma anche che la classificazione delle varie forme di devianza è difficile da operarsi, perché un medesimo comportamento può essere visto come deviante o non deviante, a seconda dei criteri di valutazione impiegati.
Bene, nel 2022, quali sono i nostri criteri? Ed ancor meglio, nel 2022 è ancora opportuno averne?
Inoltre è essenziale sottolineare che la devianza è un comportamento con origine volontaria che non rientra nello schema di abitudini e normalità stabilito del gruppo socialmente dominante e per questo può essere punito.
Come è possibile ridurre a questo l’esperienza di chi soffre di un disturbo alimentare, alcolismo, tabagismo ed altri? In questo modo non si tratta la patologia o il disturbo in sé, ma si sposta il soggetto da colui che subisce la condizione a colui che compie la devianza, colpevolizzandolo.
Cos’è la “teoria dell’etichettamento”
Purtroppo, se l’obiettivo della Meloni era quello della sensibilizzazione, siamo di gran lunga lontani. Per la “teoria dell’etichettamento” (“Labeling theory”, svilippata da studiosi come Becker) la devianza è una condizione che si crea in seguito all’interazione sociale. Inoltre, ignorando le cause, secondo questa teoria occorre sottolineare una definizione sociale della stessa, trattando la persona classificata deviante come tale.
Ma l’etichettamento non farebbe altro che innescare una conseguenza a dir poco negativa, ossia una ristrutturazione dell’identità sociale dell’individuo stesso che imparerebbe a guardasi come un deviante, in grado di non rispettare le norme socialmente condivise.
In sintesi, anche se la Meloni non avesse saputo il significato vero e proprio di ciò che stava dicendo, il semplice atto di porre una classificazione, un etichettamento, è stato controproducente, qualora l’obiettivo fosse stato quello di sensibilizzare.
E’ possibile che vi sia una linea così sottile che possa definire cosa sia conforme e cosa no?
E’ possibile che il controllo possa portare a selezionare e a distinguere, ancora, una normalità da un’anormalità?
La sensibilizzazione verso le tematiche sopra citate risulta essere ancora un tabù.
Oggi non siamo in grado di vedere uniformità in un mondo globalizzato e sfumato. Occorre “aggiustare” atteggiamenti “devianti” perché si allontanano dai prototipi di quelle che chiamiamo “vite normali”. In verità queste non esistono, così come non esistono minoranze. Perché due o tre famiglie su cinque non possono rappresentare minoranze da rettificare.
Tutto qui.
Ciò che molti come lei non sanno è che dopo la pandemia sono aumentati inevitabilmente i casi di hikokomori. Marco Crepaldi, fondatore di “Hikokomori Italia”, basandosi sulle stime degli psicologi, afferma che in Italia ci sono circa 100 mila hikokomori. Altri non sanno che in Italia circa 3 milioni di persone, pari al 5% della popolazione, soffre di DCA. Dati relativamente attendibili, poiché molte persone continuano a vivere nel silenzio. Vi è alla base una sofferenza individuale che va al di là di qualsiasi norma sociale. Non si può spiegare né attribuire ad una legge di conformità.
Prima di ogni cosa dovrebbe esserci l’individuo con la propria storia. Il problema alla base è l’essere concepita come normale, come possibile, come comprensibile. E’ questo il salto di qualità da cui siamo ancora troppo distanti.
Non è un “piano di correzione” che potrà aiutare chi soffre e chi vi è intorno ad uscire da un baratro. Non occorre “correggere per qualcosa” come se ci fossero colpevoli , come se fosse sbagliato, ma semplicemente “accompagnare verso qualcosa…”, aiutare chi ne ha bisogno con consapevolezza ed integrazione.
Ma come sarebbe possibile sviluppare quest’empatia, se siamo ancora soliti classificare, categorizzare, tracciare linee tra chi soffre e chi no?
Claudia Coccia
One response
Questo è un argomento molto delicato, molti passi sono stati fatti, molti altri sono ancora da fare. Lo stigma, le persone che considerano ” devianza ” una diversità, sono ancora tante, troppe. Se i sondaggi delle prossime elezioni, evidenziano che la sig. candidata premier ( che non oso citare ) e la sua coalizione sono i favoriti, significa che la maggior parte degli elettori sostiene le sue tesi omofobe, dalle quali nasce lo stigma e le ” devianze “. Solitamente, si sostiene che bisogna educare all’ ACCETTAZIONE sin dai primi anni di scuola. Più volte, lo sconforto arriva proprio da coloro che stanno conseguendo titoli di studi, forse si confonde l’istruzione con l’intelligenza. Le facoltà dell’intelligenza non esistono….Quando qualcuno di essi inveisce contro una persona che soffre oppure ha sofferto problemi di dipendenza, magari invitando lo stesso a consumare la dose nascosto nelle frasche, quando non accetta i sentimenti altrui, le emozioni della persona che vive oppure ha vissuto un disagio, quando non capisce che la persona disagiata forse si è scontrato con la sua sensibilità, fragilità……oltre la domanda lecita, ” Lo decidi tu? “, che concordo come tutto l’articolo, pongo altre domande: la cultura non basta? Cosa serve per stanare la demenza, l’ottusita’? Cosa fare per evitare di vivere le galere dell’imbecillita’?