Le testimonianze che in questi giorni vengono fornite dai media attanagliano le menti di tutti noi.
Scenari che fino a poco tempo fa vedevamo in lontananza dal punto di vista geografico diventano quantomai vicini e inevitabilmente incidono sulla società e sull’economia, ma invito tutti a collegarsi alla piattaforma ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project) per rendersi conto dell’altissimo numero di conflitti di ogni entità e motivazione attualmente in corso nel mondo.
Sono dell’idea che la musica e in generale l’arte non possa certo fermare tutto ciò, ma che possa quantomeno offrire un aiuto importante nel fornire una visione della realtà da nuove prospettive.
Facciamo un salto nel passato di dodici anni: Jesse Tabish e la sua band conosciuta sotto il nome di Other Lives, dopo la breve esperienza sotto il nome Kunek, nel 2009 pubblica il primo album omonimo Other Lives contenente undici tracce che gettano le basi sonore e stilistiche per il successo ottenuto due anni più tardi con Tamer Animals, che porterà la band dell’Oklahoma tra le altre cose ad aprire i concerti dei Radiohead.
Proprio Thom Yorke, leader del leggendario gruppo britannico, porterà al successo l’anno successivo il singolo omonimo Tamer Animals attraverso il remix inciso durante un progetto musicale chiamato Atoms for Peace nel quale figura anche Flea (bassista dei RHCP).
Gli Other Lives reinterpretano la tradizione folk americana rinnovandola attraverso arrangiamenti ricercati e il sapiente mix di strumenti a corda, a fiato, tastiere, ritmi accattivanti e strutture poco convenzionali perfettamente adattati ai testi di Tabish a loro volta frutto di una profonda ricerca e introspezione, pur rimanendo ancorati alle realtà che lo circondano.
All’interno di un album malinconico, ma ricco di speranza come Other Lives, spicca Paper Cities: una riflessione raccolta dal punto di vista di chi attende i propri parenti e amici di ritorno dalla guerra, rassegnati al fatto che, come sempre nella storia, la pace ancora una volta non durerà.
Tabish probabilmente richiama alla memoria la spedizione di circa ventimila soldati americani in Afghanistan ad inizio 2009 e lancia un messaggio di speranza in un brano che ruota attorno all’immagine delle “città di carta” in fiamme, auspicando dopo la fine dell’incendio che la gente ricominci a vivere in pace in una patria senza confini.
La città, simbolo di modernità e civiltà, bruciata con inquietante facilità per assurdi giochi di potere.
Ritengo che il riferimento alla carta non richiami solo la delicatezza del materiale, ma che sottintenda anche un collegamento alla cultura giapponese (cui gli Other Lives attingeranno in futuro soprattutto nell’album Rituals) e in particolare quello dell’origami, manufatto di carta dalle molteplici forme appartenente alla cultura shintoista, icona che simboleggia l’accettazione della morte come parte del ciclo vitale, ma anche di certezza nella rinascita.
Per lo Shintoismo ciò che è importante non è la materia in sè, ma la sua capacità di rinascere e assumere anche una forma diversa.
Gli enormi palazzi dall’architettura austera tipici dell’Est Europa ridotti al solo scheletro da una bomba o da un missile nemico rappresentano non solo la decisione di porre fine a delle vite umane e distruggere in tutti gli spettatori di questo macabro spettacolo la sensazione di sicurezza che tutti ritroviamo pensando alla nostra abitazione, ma indirettamente di colpire al cuore non solo L’Ucraina, ma la nostra intera società civile.
L’invito che mi piace leggere tra le righe in questo capolavoro degli Other Lives è applicabile a qualunque tipo di conflitto della storia e purtroppo è ancora quantomai attuale: attendere la fine di ciò che è stato e ricostruire a partire dalle persone una nuova società in cui possiamo essere uniti e abitare un luogo senza i confini che abbiamo inutilmente tracciato.
Antonio Montecalvo
No responses yet