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“Umanità”. Un termine che è presente universalmente nei vari vocabolari e che sarebbe bene riprendere in tempi di caporalato. Sono anni che sempre più lavoratori vengono costretti ad operare in condizioni che di propriamente “umano” non hanno nulla, in cambio di somme in denaro che, di certo, non restituiscono nemmeno in minima parte a queste persone (altra parola dimenticata) la dignità che ogni giorno si disperde in qualche angolo d’Italia.

Il recente caso del bracciante egiziano Satnam Singh, lasciato morire come un sacco di spazzatura davanti alla propria abitazione, ha riacceso i riflettori su una piaga sociale che affligge il nostro Paese da decenni. Era infatti il 1989 quando si registrò il primo caso di morte per caporalato. La vittima si chiamava Jerry Essan Masslo (è bene sempre precisare il nome dei malcapitati giacché troppo spesso vengono ridotti a freddi numeri). Questi si occupava della raccolta dei pomodori in un capannone nei pressi di Villa Literno, in Campania. Profeticamente lo stesso Masslo così si pronunciava ai microfoni del TG2 appena qualche giorno prima di morire: “Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo”.

Caporalato: dal 1989 ad oggi

In effetti il caso del visionario sudafricano sollevò le coscienze di molti, quasi tutti semplici cittadini e pochi politici, un classico della nostra Repubblica. Numerose leggi sono state proposte ed approvate per contrastare la tratta degli schiavi del nuovo millennio. L’ultima, nota come “legge anticaporalato”, è stata promulgata nel 2016 e prevede dai 5 agli 8 anni di carcere per i responsabili cui si aggiunge una multa che varia dai 1.000 ai 2.000 euro. Troppo poco, non c’è che dire, a maggior ragione se si pensa che questa legge, come molte altre, resta in pratica solo su carta.

Nel periodo che va dal 2016 allo scorso anno sono state condotte ben 834 inchieste sullo sfruttamento dei lavoratori e, badate bene, da Nord a Sud. Spesso, infatti, si ritiene erroneamente che il caporalato sia un fenomeno esclusivamente meridionale e che i campi ne facciano da scenario. Ebbene, non è così; si può legittimamente parlare di caporalato anche in altri settori quali il secondario per il Centro e i servizi per quanto riguarda le regioni più sviluppate del Settentrione.

Ergo, si può anche continuare a girare meschinamente la testa dall’altra parte (esercizio che a noi italiani riesce piuttosto bene), ma fino a quando?

Chiamiamolo crimine

Tornando alle parole di Jerry Masslo, il bracciante africano utilizzò non a caso il termine “ammazzato”. Qui si concentra il fulcro di un discorso che quasi tutti noi argomentiamo in maniera distorta. Quasi sempre all’ennesima vittima di caporalato vengono associate parole quali “incidente”, “casualità”, “fatalità”, nella convinzione che tutto questo possa essere riconducibile al caso, ad una sfortunata coincidenza. Niente di più sbagliato. La parola adatta è sempre e solo una: omicidio.

Ancora più agghiacciante risulta constatare che in pochi hanno il coraggio di parlare di “crimine” in riferimento al caporalato. In ciò risiede la vera piaga che ci affligge. La nostra malata abitudine ci porta a minimizzare, a modificare la realtà. Una pratica che ci allontana da quel progresso prima di tutto civile che non abbiamo ancora nemmeno abbozzato e che prontamente vantiamo di aver raggiunto ogni qualvolta ripetiamo, ipocritamente, uno stonato “mai più”.

Felice Marcantonio

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