La mia vita da fruitore di musica e quella di tanti altri come me è perennemente scandita da periodi di ascolto ossessivo di un determinato artista o genere che, per qualche strana ragione, sembra comparire al momento giusto in una determinata fase della nostra esistenza.
A volte riusciamo a comprenderne le ragioni, spesso invece gli strani meccanismi della nostra mente ci tengono nascosti i motivi di tale trasporto emotivo e probabilmente è giusto che alcune cose rimangano tali.
Nei chilometri percorsi ogni giorno per studio e lavoro, nei miei ascolti cerco di spaziare all’interno del panorama musicale, per passione e cultura personale, per tentare di avvicinarmi a mondi che mai avrei pensato di frequentare.
La scena rap americana degli anni ‘90 mi ha sempre appassionato e colpito per il contesto storico di oppressione razziale i cui strascichi sono presenti ancora oggi e, in generale, per come questa musica riesca a tradurre fedelmente i tratti peculiari di quello spaccato di società americana (e non solo): il costante sentimento di rivalsa sociale, le parole che fluiscono libere da qualunque filtro e raccontano brutalmente di quella difficile realtà con un linguaggio violento e volgare, ma quantomai profondo e vero, intriso di quel costante velo di sofferenza che solo chi ha vissuto e vive quel mondo potrà cogliere appieno.
Nella prima metà degli anni ‘90 l’hip hop è un genere in ascesa e le etichette investono alla ricerca di artisti per soddisfare un mercato in costante crescita che nel giro di qualche anno frutterà milioni di dollari e si svilupperà anche fuori dagli States.
Nasce da subito un dualismo tra le due etichette discografiche più importanti, una situata nella East Coast, la Bad Boy Records di Sean Combs (in arte Puff Daddy) e quella della West Coast chiamata Death Row Records, fondata da Suge Knight e Dr. Dre.
Quel che accadrà successivamente è storia: Tupac Shakur, artista di punta della Death Row, il 30 Novembre 1994 è bersaglio di un agguato in uno studio di registrazione a New York in cui vengono esplosi 5 colpi di arma da fuoco, viene derubato dei suoi gioielli (del valore di migliaia di dollari) e accusa il suo collega The Notorius B.I.G., in quel momento lì con lui, di essere tra i mandanti dell’aggressione insieme a tutta la Bad Boy.
Le frizioni continuano a suon di rime nelle canzoni degli artisti coinvolti, ma col tempo la situazione sfocia in una vera e propria faida dalle tinte criminali che terminerà con la morte del 25enne Tupac il 13 Settembre 1996 e di The Notorius B.I.G. pochi mesi più tardi, il 9 Marzo 1997, nella medesima modalità.
Ad oggi i delitti dei rispettivi gioielli delle due etichette, nonché figure fondamentali per la diffusione del rap nel mondo, risultano irrisolti e probabilmente lo saranno per sempre.
La Death Row inizia il suo lento declino a causa della morte del suo simbolo Tupac e degli addii del co-fondatore Dr. Dre e di Snoop Dogg, ma soprattutto per le varie implicazioni dei suoi componenti in diversi scandali a sfondo criminale, a partire dal suo fondatore, Suge Knight, legato da sempre alla gang dei Bloods e più volte incarcerato per aggressioni e traffico di stupefacenti fino al 2018, anno in cui viene definitivamente condannato a 28 anni di reclusione per omicidio volontario.
Violenza, droga, crimine, denaro, cosa hanno a che fare con il Santo Natale?
In questo contesto così rude, volevo trovare come sempre un piccolo spunto da donare ai nostri lettori.
Nel 1996 la Death Row Records rilascia una sorta di regalo per tutti i sostenitori dell’etichetta: “Christmas on Death Row”, una raccolta di brani natalizi interpretati da alcuni artisti dell’etichetta e altri musicisti ospiti.
Un disco che mescola sapientemente rap (meno di quanto si possa pensare), R&B e soul, rielaborando canzoni natalizie del passato e aggiungendone di originali come “I Wish” dei Tha Dogg Pound.
Il linguaggio è pacato rispetto a ciò che ci si aspetterebbe, non vi sono volgarità o violenza, né riferimenti agli avvenimenti di qualche mese prima, né ulteriori attacchi alla fazione rivale dell’East Coast; un disco senza troppe pretese, un lavoro che rappresenta una sorta di “tregua” in corrispondenza delle festività natalizie.
Il disco vendette 200.000 copie, quello che oggi sarebbe un quadruplo disco di platino in Italia, un mezzo fallimento per gli standard dell’epoca accolto in maniera spassionata dalla Death Row, che destinò gran parte dei proventi in beneficienza.
Antonio Montecalvo
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